-
Ci sono pittori
autoreferenziali che si professano
antimafia nel timore che la loro
attività artistica non sia evidente agli
occhi degli osservatori. Così sono più
tranquilli e la loro attività risulta
più rassicurante agli occhi dei loro
estimatori. La cosa succede anche a
certi letterati, a molti cineasti e
attori e a una variegata categoria di
speculatori che, sotto questo paravento,
nascondono una sufficiente indifferenza
per la lotta contro la mafia di cui
spesso sconoscono le strategie e i
percorsi più elementari.
-
Non è il caso di questo
nostro autore, Pino Manzella, già amico
e compagno di lotta di Peppino
Impastato, solitario artista
dell’impossibile, cioè sognatore di un
mondo nuovo fino al limite
dell’intimismo e del paradosso. Una
qualità che si può meglio apprezzare, se
si tiene conto della vulgata corrente
che trasforma il prodotto culturale in
strumento di potere, oggetto di
consorterie massmediali. E dico questo,
non perché, da amico, io voglia fare le
celie alle riconosciute capacità
artistiche di un cinisense che conosco
da oltre vent’anni, ma perché vedo nella
sua opera ciò che lo accomuna a quella
categoria di persone che fanno il loro
mestiere, senza attribuirsi particolari
meriti, ma semplicemente continuando a
fare quello che hanno imparato alla
bottega di un’antimafia attiva,
solitaria e minoritaria quale fu quella
del circolo di Peppino Impastato “Musica
e cultura”. In questo artista, come nel
suo maestro ideale, la Sicilia è
messaggio e simbolo, tradizione popolare
autentica e universo intellettuale. Lo
cogliamo in diverse opere di questa
mostra che credo abbia il filo
conduttore della Sicilia rivisitata
attraverso la lente dei suoi migliori
interpreti, o mediante la condanna di
alcuni suoi simboli negativi. Simboli e
realtà della quasi secolare distruzione
dei doni che stanno alla base della
condizione siciliana e universale: la
parola, il segno, l’esempio, l’azione,
la sconfitta, il mistero e il paradosso,
la ricerca della verità, la condanna
senza mezzi termini, il valore della
speranza.
-
Per questa ragione il
visitatore troverà in questa mostra il
filo conduttore dell’antimafia
attraverso la raffigurazione delle
migliori voci che la Sicilia ha avuto
nel corso del Nocecento: da Vitaliano
Brancati ad Andrea Camilleri, da
Leonardo Sciascia a Danilo Dolci. E’ una
visitazione libertaria nella quale sono
costanti gli incubi della distruzione
che si addensano in un istante e dando
l’idea dei mostri sacri che hanno
distrutto la Sicilia di un tempo, quella
che troviamo negli emblemi delle antiche
carte con i simboli del Senatus
populusque Panormitanus, e di quegli
altri che l’autore ricama con repulsione
per definire la fauna odierna e
sempiterna di quel mondo di scarafaggi,
camaleonti, talpe, e uccelli rapaci che
hanno deturpato e distrutto la bellezza
della Sicilia, il patrimonio della sua
storia, la sua vera identità di isola
del mito e della bellezza. Quella che da
sempre gli intellettuali di mezza Europa
sono venuti a cercare tra le nostre
campagne e lungo le nostre coste. C’è in
questa Sicilia sognata, non il
vittimismo di chi ha dato tutto, come
Felicia Impastato o le vittime delle
stragi, ma la speranza e la parola
liberatrice. Quella di Gaspare Cucinella
e di Ignazio Buttitta, di Vincenzo
Consolo e di Lucio Piccolo, di Elio
Vittorini e Vitaliano Brancati. Di
Sciascia, Picasso e Guttuso. C’è la
memoria dell’infanzia perduta di
Peppuccio Tornatore, il teatro di Franco
Scaldati, la poesia di Nino De Vita.
Insomma la Sicilia migliore, ma anche la
cultura nazionale ed europea, con la sua
storia, il suo travaglio, le sue guerre
civili di sempre. O, per andare oltre,
l’uomo di cui parlava Jean Paul Sartre:
“Totalmente impegnato e totalmente
libero” e che dovendo scegliere tra la
morte e la vita, sceglie la vita. Un
dilemma saggiamente rappresentato dal
Trionfo della morte di Palazzo Abatellis,
con Pablo Picasso che domina la scena in
primo piano. Tutto il resto è, nella
formazione di questo nostro artista,
comunicazione inutile; anzi, negazione
di ogni senso del rapporto tra la
soggettività degli individui e il loro
bisogno di comunicazione autentica. Da
qui il valore, o meglio l’inutilità di
certa stampa, buona sola per avvolgerci
“reschi” (lische di pesce). Termine
efficace del lessico siciliano che vuole
significare una complessità di elementi
negativi e una molteplicità di
espressioni dialettali: “na cartata ri
reschi” (un pezzo di carta pieno di
lische); oppure “aviri ‘a panza china ri
reschi” (avere la pancia piena di
lische, cioè essersi saziato di cose
inutili e dannose). Espressioni
metaforiche di una relazione sociale e
di un processo educativo non creativo,
che, al contrario, per Manzella deve
avere gli elementi dello sviluppo. Qui
si innestano aspirazioni culturali e
ansie di svolta politica e sociale che
l’artista elabora attraverso il filtro
del suo particolare modo di sentire il
mondo che lo circonda, fatto di simboli
positivi e di moniti. Per chi non avesse
ancora capito il valore della cultura,
del sacrificio, dell’essere società e
Stato.
-
Per l’affermazione della
persona umana e contro il dio denaro.
-
Giuseppe Casarrubea