Mario Giammarinaro, Livio Stroppiana – La Luce bagna ogni Luogo – martinArte – Torino
dal 28 febbraio al 13 marzo 2012
La LUCE bagna ogni LUOGO – Mario GIAMMARINARO – Livio STROPPIANA – a cura di Fernando Montà – Inaugurazione martedì 28 febbraio ore 18.00 Fino alle 22.00 – dal 28 al 13 marzo 2012 – orari:lun 15.30-19.30 mer ven 10.00-12.30/15.30-19.30 mar-gio fino alle 22.00
Mario Giammarinaro
Il senso profondo della ricerca di Mario Giammarinaro si identifica con una pittura intensa, interiorizzata, modulata sulle cadenze di una personale visione della società contemporanea, delle vicende legate alle tragedie e alle attese dell’ umanità, di quel ripercorrere incessantemente i percorsi della memoria, dall’ ambiente, della natura.
Le sue " tavole " prendono forma e dimensione e forza attraverso la strenua volontà di fissare i termini di una stagione che ha, in ogni caso il valore di un incontro tra sogno e realtà, tra sospensione psicologica e una gestualità rattenuta entro i limiti di una controllata espressività.
Il discorso di Giammarinaro appare contraddistinto da una dimensione pittorica in cui la materia – colore assume una propria e indiscutibile identità, una intrinseca capacità di trasmettere un’ emozione, un pensiero, una sottile inquietudine.
Si avverte perciò nei suoi dipinti l’ essenza di una elaborazione mediante la quale ottiene una particolare materia, che è il risultato della fusione di colle da legatoria, resine, pigmenti industriali. E da questo impasto emergono i segni indelebili del tempo. lande desertificate, terre laviche, le spiagge dell’ Atlantico degradate dalla mare di petrolio.
I colori bituminosi, i cieli neri, il paesaggio roccioso, appartengono ad una raffigurazione dove le paludi, i fossili, le nuvole bianche di vento esprimono la misura di un itinerario che travalica il solo dato reale per comunicare le sensazioni dell’ artista, le angosce esistenziali, la consapevolezza dei mali che affliggono il mondo.
Nello studio in mezzo alla campagna di Pralormo, il silenzio sembra permeare crogioli e grandi telai e il cavalletto con l’ ultima tela. Un silenzio che è vita,meditazione, introspezione. Un silenzio che evoca gli " Oceani di silenzio " di Franco Battiato ma, contemporaneamente, scandisce l’ andante musicale della linea sulla superficie del quadro.
Una musicalità che si traduce in una suggestiva e poetica installazione, in un’ isola nell’ " Albero del canto ".
Vi è in Giammarinaro un tormento interiore, un "sentire " la natura che va al di là della più scontata quotidianità, una trascrizione delle luci che annunciano il nuovo giorno, una dedizione completa al " fare pittura " tanto da abbandonare la città, il traffico caotico, le convenzioni sociali per albe solitarie: " E io sto sulla spiaggia nella terra / dove tutto è ancora frontiera……" ( Lawrence Ferlinghetti ).
E ogni elemento della composizione, ogni grumo significante di colore, ogni graffito su carte trattate, ha il fascino di una sensibile, metafisica, insinuante dizione che trova riscontro nei versi lungamente amati di Dino Campana : " Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti / E l’ immobilità dei firmamenti / E i gonfi rivi che vanno piangenti / E l’ ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti / E ancora per teneri cieli lontane ombre correnti / E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
Angelo Mistrangelo
Per esaminare l’attuale operato di Mario Giammarinaro bisogna prendere in considerazione i tre aspetti più rilevanti del suo fare artistico: l’utilizzo di materiali extrapittorici, una poetica che si esprime con una cifra originale e inconfondibile, un impianto etico che dà alla sua ricerca una valenza di impegno antropologico perché mette in evidenza come l’arte si rapporti con la società e la cultura.
Per necessità di sintesi mi tocca essere schematico. Procederò quindi dal particolare al generale : partendo dalle metodiche operative e dal dato tecnico-oggettivo passerò poi a dire della sua scelta di esprimersi col genere artistico del paesaggio, per soffermarmi, infine, sul messaggio che l’artista intende lasciarci in questa esposizione.
UTILIZZA, da sempre, tecniche miste, cromie e solventi artistici classici mescolati con materiale prelevato direttamente dall’ambiente (quasi un ready made). Li assembla e li agglutina con resine e colle sintetiche su tavole e tele con notevole armonia compositiva. Qui già si intravvede l’artista sciamano, l’alchimista , lo sperimentatore che con coraggio coniuga l’antico col contemporaneo. Con originalità indaga le forze e l’energia custodite nei quattro elementi della vita: aria (cielo), acqua (mare, nuvole), terra (sabbia), fuoco (petrolio, bitume, sostanze organiche infiammabili, legno), a cui dà l’inquietante forma della scena contemporanea.
L’insuperabilità della sua tecnica manipolatoria, l’instancabile sperimentazione senza cambiamenti di stili, permettono alla sua materia pittorica, di affiorare di condensarsi, di raggrumarsi, di rattrappirsi o di espandersi per invadere la superficie del quadro in maniera aggettante, come in un altorilievo e si pone come un campo di forze e di tensioni dinamiche tridimensionale. L’uso di materie non tradizionali e la volontà di dilatare l’opera nello spazio, inscenano una rappresentazione dove domina il silenzio e si ferma il tempo in una dimensione sospesa, in consonanza con l’atteggiamento riservato e appartato del pittore che rifiuta ogni vacuità mondana.
COMBINA i caratteri, gli spunti emozionali e i temi della pittura di paesaggio tradizionale con elementi astratti e materici tipici della ricerca informale e li associa a memorie installative; il tutto acconciato come un cannocchiale prospettico che sconfina nel trompe l’oeil. Ne deriva una visione in bilico tra la documentazione verista e una rappresentazione simbolica, dove la gestualità non intrattiene parentele con la dimensione del comportamento ma si rapporta col linguaggio.
Il risultato è un’immagine armoniosa , ma ambigua nei suoi equilibri descrittivi, vi è un effetto di risonanza e di spaesamento fra gli elementi realistici composti in primo piano e l’informale atmosferico sullo sfondo e viceversa tra il coacervo magmatico e disordinato in primo piano e il cielo minaccio e realistico sullo sfondo. Entrambe le visioni, in apparente contraddizione, ci suggeriscono che in questa arte c’è qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio e immediato di una veduta marina deturpata, di un disastro ambientale trasformato in un’icona. C’è una marcata componente personale che si esprime col graffio di una denuncia sociale.
Il paesaggio, inteso come genere artistico, è solo un pretesto a cui l’artista affida l’espressione di stati d’animo di forte pregnanza psicologica, uno schermo su cui si riflette la sua condizione interiore: qui e ora prende la sostanza di una landa desertica, desolata, disabitata, ostile a causa dell’insipienza umana. Una marea nera si ritira all’orizzonte e una luce lontana illumina la tragedia avvenuta. Una coltre di neve ricopre come un bianco sudario le profonde lacerazioni inferte alla natura.
Dalle terre fossilizzate dal gelo invernale osiamo sperare germoglierà ancora una nuova primavera
RIFLETTE con un approccio filosofico sul tema della tragedia prendendo come pretesto le grandi catastrofi ecologiche, ma le sue opere raccontano in verità il quotidiano insulto, lo sfregio continuo, il vandalismo gratuito e anonimo al paesaggio, alle persone e alle cose, una molteplicità di piccoli e grandi drammi umani, storie efferate che per quanto prossime alla nostra quotidianità, finiscono di rimanere inascoltato, sordo rumore di sottofondo.
Giammarinaro si interroga sulla transitorietà della vita; cerca il senso dell’esistenza dell’universo e si interroga su quale ruolo occupa l’uomo nel teatro della natura. Come artista rivendica il debito di testimonianza nei confronti del mondo fisico e biologico sempre di più vittima della violenza individuale e collettiva e ci invita ad un sentimento di corresponsabilità nel tutelarlo e preservarlo integro.
Giovanni Cordero
Mario Giammarinaro è nato a Torino nel 1951 – vive e lavora a Pralormo – To – www.mariogiammarinaro.it
Livio Stroppiana
La pittura di Stroppiana si svolge attorno al tema della figura umana ma si allontana dalla verosimiglianza, predilige la ricerca al possesso definitivo della verità, elude il dogmatismo, si impone più per suggestione che per armonia. L’imitazione si trasforma in ricerca costante del fondamento dell’esistenza umana, essa si esplicita in contrasti d’interesse e passioni, individuali e collettivi, per il pittore. La linea conduttrice della ricerca è indicabile nella rappresentazione martellante del volto che esprime qui il manifestarsi, l’aspetto pubblico, della realtà.
Nel “quadro Caos n°12” (1980, china e tempera e olio, cm 42 x 53), l’immagine elude la verosimiglianza, si trasforma in sollecitazione visiva costruita per linee e zone contigue di colore (si veda l’originale), il processo costruttivo di aggregazione e scomposizione del volto viene esaltato quasi che esso sia il ritmo profondo dell’esistenza, manca infatti significativamente la descrizione e la scena, l’elemento noto. Quest’opera non rappresenta un individuo in particolare ma una “forma vitae”; l’assurdo deforme non è proprio del singolo (uomo, donna , ricco, povero, ecc.) ma dell’umanità confermata, il volto quindi non ha una fisionomia, nè vuole averla.
Il tema del ritratto coglie il non storicizzarsi dell’uomo nello spazio e nel tempo, il volto diviene forma che esprime la condizione esistenziale, non singolare ma collettiva, comune agli individui di un gruppo conformato ed omogeneo. L’immoralità del processo angoscioso che porta l’uomo, suo malgrado, ad assumere una connotazione standardizzata, come tale essa non bella ma brutta, si estrinseca in una serie di volti – tipo, la cui funzione è pensabile come quella di una bandiera, non unica ma multipla, più diplomatica che storica.
Tuttavia lo sguardo sfugge e predica il “quia” gli ovali scurissimi degli occhi trafiggono il volto, indicato da linee convergenti o aguzze e contrastato da strisce intenzionalmente sfaldate di tono cupo, essi costituiscono gli elementi portatori dell’interiorità, compromessa ma forse vincente il deforme; quindi il volto indica la sclerotica esteriorità e l’interiorità, così inteso esso non può non essere che forma allegorica e maschera nell’incomunicabilità.
Il deforme non è caricatura della realtà, è la bellezza stessa che passando dalla dimensione dell’ideale a quella del reale inverte il proprio significato, diventa bruttezza, il passaggio implica la riflessione critica, il giudizio ne dà la dimensione. L’interesse del pittore è di esprimere un giudizio che, se è intransigente sulla condizione oggettiva dell’uomo moderno, eroe senza carattere, non esclude la possibilità del superamento dell’angoscia che è alla base della deformazione della libera espressività in conformismo.
Come la vita, nel momento in cui accetta di conformarsi al passato non è più presente nè viva, così il pensiero giudica non vera ma deforme la paralisi – (avrebbe detto Joyce) della libertà individuale conformatasi. Oltre l’apparenza, oltre il volto maschera è ciò che più conta, “ la voglia di essere giusto, la capacità di innamorarsi” (ama riaffermare lo stesso Stroppiana), in altre parole al di là dell’attuale stato di minorità della “ autonomia della ragione e del sentimento” (sono ancora parole del pittore) esiste la possibilità
dell’emancipazione nel “quadro Scomposizione n.28 bis” (1980, china e tempera e olio, cm. 30x 43), i tre volti sembrano il canto di uno sventolio di bandiera, il movimento è suggerito dalle pieghe del drappo sul quale sono stigmatizzate le immagini ma l’impasto del colore, quasi un monocromo e materico e prescinde da ogni spazialità aerea, i volti pur svolgendosi in verticale si collocano in piano, nel grembo del drappo concretizzato in allucinante loculo di tufo.
Non sono le immagini a muoversi ma l’umanita che trascorre davanti a loro che emanano uno sguardo, non una voce nè un pianto; ogni naturalezza esclusa perchè la ricerca del pittore si svolge quale dialettica della ragione umana. Nell’opera di Stroppiana la quasi totale rinuncia a ritrarre per intera la figura umana (tranne che nei bozzetti e nei numerosi studi molto interessanti a livello tecnico progettuale) si spiega data la premessa: il corpo non è che il supporto del volto – forma che condiziona anche il movimento, la vita di relazione, la figura perciò a livello creativo meno immediata del volto.
Cogliendo in questi “modelli” il drammatico contrasto tra la realtà dell’individuo e il suo capovolgersi in realtà deformante, sintetizzato dal pittore in sguardo e volto, la razionalità dell’uomo sarà sempre più coscientemente spinta all’emancipazione. Problematizzare l’arte denunciando il deforme, è un impegno civile e morale, che si traduce nel – J’accuse – del pittore al volto diventato maschera, forma, allegoria e paralisi del reale, con il giudizio perentorio di chi, cosciente dell’esserci di un tale conformato modo esistenziale, comunica attraverso l’oggetto quadro l’angoscia quotidiana, il dualismo e l’ambiguità dell’uomo conformato ma non assuefatto allo status.
L’assurdità della condizione dell’uomo conformato a priori fui espressa dal poeta con la proposizione “così è (se vi pare) (Pirandello), occorre ora mettere in rilievo l’urgenza di recuperare l’originaria forza realistica di tale affermazione; l’aut-aut deve sorgere dalla realtà sociale non dall’allegoria. L’uomo contemporaneo, che si vuole vuoto di umanità e ingabbiato nelle forme, ha necessariamente, in potenza, per il pittore, la capacità di neutralizzare la maschera. Crollerebbe allora il conformismo e la nascente spontaneità procederebbe, incerta e forse sola, su quel sentiero che avrà saputo progettare cosciente della propria autonomia ed umanità.
Dicembre 1980, Lina Mezzacappa Naimo
I luoghi della pittura di Livio Stroppiana appartengono alle rivelazioni di un interiorità complessa, alle accensioni di una luce che serpeggia e si’insinua fra le estenuanti cadenze di una materia percorsa da segni indelebili del tempo. Sono i segni graffiti di una musicale definizione delle superfici di una informale risoluzione della composizione che non è mai Funzione di una linea ferrea che rinserra la struttura, ma di una “fuga in altro”, di una ricerca che tende a una particolare spazialità. E nello spazio si dispongono le zone di colore, talora delimitate si articolano le linee di una pulsante emotività, si fondono le intime sequenze dei colori che assumono il valore di una tessitura finissima, lieve, incorporea.
Il dettato di Stroppiana prevalica, quindi, ogni semplicistica risòluzione tecnico- esepressiva per trasmettere l’essenza di un discorso che approda alle segrete cadenze di una pittura lontana da ogni più scontata immagine realistica quotidiana, per consegnare alla conoscenza l’alternarsi delle sensazioni: “La nostra – esigenza, ha scritto Emilio Vedova – sarà di riscattare i segni, i colori da tutte le pigrizie, da tutti i vizi, per la grande avventura, per la nascita espressiva di una condizione umana.
L’avventura di Stroppiana è, certamente, più rarefatta di quella dell’artista veneziano, ma rivela una precisa volontà di fissare un sentimento, un amore, un angoscia, un ricordo. E, sopratutto, si ravvisa nei suoi dipinti l’immanenza del silenzio, la profondità di una memoria che suggella i ritmi di una elaborazione che trae la sua ragione d’essere dall’osservazione della natura, dai frammenti di una realtà che si stempera nella luminosità atmosferica. Un silenzio che sembra ammantare ogni cosa, rievoca suoni e permea questi brani di un paesaggio più sognato che visto.
Un lembo di cielo un profilo di collina, una pianura sconfinata, riarsa, percorsa da crepe e da arbusti e da magmatiche presenze, riemerge, perciò, dalla sedimentazione del tempo con tutta la forza di un messaggio che si fà dimensione dell’umana esistenza. Al di là di ogni connotazione contenutistica, l’impegno di Stroppiana si configura con una ben precisa capacità di interpretare l’impercettibile vibrazione del segno nella luce, di fermare le variazioni del dato cromatico, di rinnovare l’incontro tra gestualità e l’impostazione di un insieme di elementi che si ricollega a una posizione concettuale in cui si identifica – Ha scritto Gillo Dorflex, in “ ultime tendenze dell’arte d’oggi” – la ricerca di uno “spazio pittorico o meglio di spazio visuale diverso da quello naturalistico e prospettico, diverso da quello impressionistico e da quello cubista; e diverso anche dal “non spazio” dell’astrattismo geometrico e costruttivista…”.
E nella modulazione di queste pagine si chiarisce un” tonalismo” non decisamente legato a una limpida raffigurazione, ma teso a creare” ambienti spaziali” liricamente definiti.
Marzo 1991, Angelo Mistrangelo
Livio Stroppiana è nato a Torino nel 1942, dove vive e lavora. Espone dal 1962 in mostre personali e di gruppo in Italia, in Francia, in Svizzera. Sue opere si trovano presso collezioni pubbliche in Italia ed in Francia e presso collezioni private in Italia, Francia, Lussemburgo, Svizzera, Brasile, Stati uniti d’America, Inghilterra e Germania; ha vinto premi di pittura e incisione. Presentazione e recensione: Paolo Bellini, Leonardo Bizzarro, Lucio Cabutti, Franco Caresio, Giovanni Cordero, Mauro Corradini, Manuela Cusino, Francesco De Bartolomeis, Luigi Di Matteo, Edoardo Di Mauro, Angelo Dragone, Paolo Fossati, Rosanna Greco, Renzo Guasco, Marco Ettore Jacchia, Paolo Levi, Pino Mantovani, Gian Giorgio Massara, Carmelina Mezzacappa, Angelo Mistrangelo, Paolo Nesta, Silvana Nota, Annunziata Pani, Teresio Polastro, Giorgio Seveso, Aldo Spinardi, Elisabetta Tolosano, Franca Varallo.
La LUCE bagna ogni LUOGO
Mario GIAMMARINARO – Livio STROPPIANA
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