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17
Totem per il Graffiti Day
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Offrire un articolato sistema
di “miliaria” con cui orientarsi nel controverso panorama
della contemporaneità.
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Parrebbe essere questo
l’intento prioritario perseguito dai diciassette artisti
coinvolti nel progetto 17 Totem per il Graffiti
day, a conferma dell’insopprimibile esigenza di marcare
simbolicamente il territorio “esistenziale”, sì da lasciare
“tracce” e “segni” assai evidenti, che possano fungere al
contempo da bagaglio esperienziale per il presente e da
memoria e tacitiano “monumentum” per il futuro.
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Non è per tanto un caso –
quindi – che l’intento di celebrare i dieci anni di
Graffiti abbia previsto la realizzazione di opere d’arte
tutt’altro che effimere quali dei totem, poiché questi, in
virtù della loro significativa possanza volumetrico-visiva,
si rivelano dei congrui ed appropriati strumenti
d’affermazione dell’Ego artistico, in grado di incarnare,
con dovizia e precisione, quel modo di intendere il proprio
“essere ed esistere al mondo” e quell’idea di sé, maturati
nel corso d’una intera vita di uomini e di protagonisti
delle arti visuali. Epitomi, dunque, nonché sublimati e
concentrati visivi di Io strutturati per progressivi
passaggi e sedimentazioni esperienziali, che, innalzandosi
in forme simboliche di elevata gradazione emozionale ed
affettiva, si offrono quali paradigmi cui relazionarsi e
riferirsi, in una interlocuzione che possa fungere da ideale
referente ai fini d’una più dettagliata mappatura del “qui e
ora” e – in definitiva – d’una più chiara (ma non per questo
più rassicurante) topografia della nostra identità
spazio-temporale. “Segni” – come detto – (nel senso d’una
lata semiologia, ma anche, volendo, d’una semeiotica di
stampo clinico), probanti e indicativi d’una condizione
assolutamente individuale, e tuttavia capaci, in forza del
loro innestarsi come nodi fondanti in una estesa tramatura
di interrelazioni, di delineare il puntuale “diagramma”
d’una articolata e generale situazione, al contempo
psicologica, sociale, cultural-antropologica e quindi
storica.
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Non, per tanto, semplici
“strutture-monito” (nei termini tipici del simbolismo
religioso cui i totem alludono nella loro impostazione
primigenia ed aborigena), non “soglie” invalicabili
(inevitabilmente indicatrici di codici normativi ai quali
attenersi strettamente nel viver quotidiano), ma puntuali
trascrizioni immaginifiche di vissuti personali (artistici
innanzitutto, e contestualmente anche esistenziali), tali da
ergersi a efficace “segnaletica” cui guardare non
passivamente e con la quale confrontarsi dialetticamente in
cerca di illuminanti spunti e suggestioni.
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Racconti sempre ben conclusi
in loro (e ovviamente doviziosi, a prescindere dal grado di
facondia e dal tono più o meno retorico dei diversi e
peculiari registri narrativi adottati dagli autori) e ciò
nonostante in grado di integrarsi armonicamente, fornendo
agli osservatori quel sistema di coordinate – cui
nell’incipit si è accennato – capaci di “guidare” non solo
nella dimensione della singola ideatività artistica d’ogni
artefice coinvolto, ma anche – e primariamente – di fungere
da palesi referenti per chi cerchi delle “prese di
posizione” non ambigue nell’incerto panorama intellettuale
del mondo circostante.
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Il che induce ad inquadrare i
processi ideativi e gestuali dei nostri artisti in
tassonomie di pregnanza tutt’altro che irrilevante o
superficiale, rilanciando, ancora una volta, l’obbligata
riflessione sulle categorie del moderno e del post-moderno e
sull’imprescindibilità d’ogni vero fare artistico da un
pensiero estremamente forte e consapevole. Il tono assertivo
che intride questi totem, infatti, pur nei doverosi margini
di polisemicità che pertengono a ciascuna opera d’arte (la
quale trova sempre e comunque il compiuto completamento
nell’approccio interpretativo adottato dal singolo
fruitore), non lascia adito alcuno a debolezze cogitative o
ad atteggiamenti incerti e pilateschi, rilanciando viceversa
il ruolo dell’artista dichiaratamente araldo e vessillifero
di critiche, di istanze e proposizioni, quale è stato – non
senza errori e ingenuità – nel passato prossimo e remoto e
quale dovrebbe continuare ad essere – in spregio alle più
becere logiche di mercato – nella stretta attualità.
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Muove proprio da queste
“energiche” premesse l’impegno progettual-esecutivo dei
diciassette partecipanti all’iniziativa, i quali, non a
caso, hanno operato una variegata e articolata serie di
fabulazioni, in cui la componente della più accesa fantasia
visuale non esula però mai da visioni dell’esistente
improntate a una debita attitudine riflessiva ed analitica
di notevole profondità e di rilevante peso specifico. E
tutto ciò, prescindendo da qualsivoglia sterile e obsoleta
controversia su tecniche e linguaggi (che infatti spaziano
dal segno graffitistico al predomino del colore, dal verbo
figurativo alla libera astrazione, dal ricorso al ready made
agli inserti polimaterici, in un caleidoscopio di
ibridazioni fra grafica, pittura, scultura, uso concreto
della parola, tale da condurre a delle installazioni assai
contaminate), poiché quello che conta maggiormente è
contemperare le esigenze correlate a ben precise cifre
estetico-stilistiche e la volontà di rendere “leggibili” le
idee sottese ai gesti degli artisti, senza però incorrere in
derive iconologiche di tipo semplicistico o riduttivamente
didascalico (nonostante l’affioramento, qui e là, di qualche
tentazione di siffatto genere) e mantenendo piuttosto il
rapporto fra significante e significato entro ambiti
semantici non troppo labili, così da indirizzare il focus
ottico degli osservatori verso l’obiettivo tematico
immaginato.
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Totem, dunque, quali ideali
“miliaria” che segnino il passo di chi ad essi sappia
volgere lo sguardo; inconsueti indicatori di percorsi, la
cui “comunicativa” forza di orientamento ed induzione è
lasciata – in fondo e come sempre – all’acuità visiva e alla
capacità ricettiva di tutti noi, “viandanti” viepiù dispersi
e isolati in un “girovagare” senza posa nei troppi territori
oscuri dell’esistere.
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Salvo Ferlito
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